Di recente mi sono imbattuto in un articolo su LinkedIn dal titolo “The Distinctive Brand Asset Fallacy” che ha generato una certa vivacità nei commenti. O meglio, non tanto l’articolo in sé quanto piuttosto un post che lo citava. E ancora di più un secondo post che citava il primo. Un discreto dedalo, è vero. C’è da dire che il secondo post non le mandava certo a dire, con un commento abbastanza diretto. Per altro alle discussioni polarizzate sui social media siamo ormai tutti abituati, quindi nessuno stupore. Anzi, ormai mi stupirei se capitasse il contrario. Vado al dunque.
L’articolo parla dei Distinctive Brand Asset (DBA). I DBA sono gli elementi di una brand identity che non sono strettamente legati al nome del marchio. Per esempio i suoi colori, le frasi tipiche utilizza, eventuali personaggi, i suoni, le forme, le immagini e tutti gli altri elementi, grafici, di packaging o altro, che siano memorizzabili. E dunque memorabili, nel senso di essere in grado di restare potenzialmente a lungo nell’immaginario del pubblico e generare dunque un’associazione e un ricordo duraturi. Secondo la definizione che ne da l’Ehrenberg-Bass Institute, i DBA sono quegli elementi che evocano il ricordo del marchio nella memoria dei consumatori di una categoria di prodotti. L’articolo però mette in discussione l’idea che gli asset di marca debbano per forza essere distintivi (cioè unici) per essere utili e suggerisce piuttosto che possono avere un loro valore anche se non sono unici, purché siano efficaci nel richiamare il marchio nella mente dei consumatori. Un termine più appropriato, sempre per l’articolo, sarebbe dunque “Individually Memorable Brand Asset”: la loro valutazione dovrebbe basarsi soprattutto sulla loro capacità di essere ricordati (cioè differenziarsi dagli altri), piuttosto che sulla loro capacità di risultare distintivi (cioè assicurare unicità).
I due approcci — asset distintivi VS asset differenzianti — danno luogo ad una serie di commenti abbastanza vivaci. Anche se poi sembra che il tutto si risolva nella critica — sulla quale pare entrambe la parti si trovino abbastanza d’accordo — al titolo dell’articolo, colpevole di essere stato formulato in modo un po’ troppo forzato, più per attirare l’attenzione che come reale sintesi dei contenuti del pezzo. E, anche qui, nulla di nuovo sotto il sole se è vero, come è vero, che è prassi ormai consolidata per quasi tutti i titoli che leggiamo online. Inclusi quelli dei quotidiani. Ma torniamo a noi.
L’articolo che ho citato ad un certo punto afferma che anche con gli asset di brand siamo finiti in una sorta di effetto McNamara. L’effetto McNamara afferma che tendiamo a escludere da una indagine tutto ciò che non è misurabile. Iniziamo, insomma, cercando di misurare ciò che ha più valore per finire poi per valutare solo ciò che riusciamo a misurare più facilmente. Ma, volendo arrivare al dunque, qual è l’aspetto importante di tutto questo? Anche tenendo conto che l’approccio al brand non può essere lo stesso se siamo una realtà medio-piccola o un colosso internazionale.
Sicuramente i diversi elementi della brand identity sono fondamentali. Basta che siano differenzianti o devono anche essere distintivi, cioè unici? Ovvio che sia meglio quando una brand identity riesce ad essere distintiva, cioè unica. Perché non solo le persone la ricorderanno, memorizzandola, ma quel ricordo non dico che resterà per sempre, indelebile, ma sicuramente sarà duraturo. E associato inequivocabilmente a un determinato prodotto, servizio, settore. Memorabile, dunque. Due aspetti che però vengono spesso se non proprio tralasciati quantomeno non sempre valorizzati in modo corretto sono la coerenza e la costanza.
A cosa serve, infatti, avere una brand identity memorabile se poi siamo noi stessi a, per così dire, tirarci la zappa sui piedi non sfruttandola appieno o, nella peggiore delle ipotesi, a eroderne in parte il valore, il potenziale grazie alla nostra incoerenza? O grazie alla nostra scarsa costanza nel restarle fedeli? Già, perché — sempre tornando al tessuto produttivo che più caratterizza il nostro Paese, cioè le realtà medio-piccole che non hanno a disposizione i budget e i team di comunicazione delle multinazionali — una volta definita la brand identity ci sembra che il grosso del lavoro sia fatto. Invece no. Servono costanza, e coerenza. Comunicare sempre con la voce di brand corretta, senza variare inutilmente gli stilemi. Certo, non è semplice. Soprattutto se non siamo una realtà grande e strutturata. Ma è un passaggio fondamentale. Così come lo è la coerenza. Non possiamo permetterci mai, nemmeno quando la fretta sembrerebbe imporcelo (la fretta è cattiva consigliera, si sa), di risultare stonati. Non possiamo mai risultare sopra le righe. Dobbiamo adattarci al contesto, sempre, ma senza snaturarci.
Ecco allora che tutte le occasioni di comunicazione diventano importanti. Fondamentali, direi, per dare voce — sempre la nostra — al brand. Saremo noi stessi quando spediamo un pacco, imbustandolo, così come quando dovremo utilizzare delle etichette. Giusto per citare due situazioni nelle quali spesso, per mancanza di tempo o di analisi, non sfruttiamo appieno la possibilità di comunicare (con) la nostra brand identity. Le occasioni possono essere molte altre ancora. L’importante è ricordarsi sempre che la differenza si può fare, con successo, anche curando i dettagli più piccoli.
Se essere unici è così fondamentale per i brand, perché molti falliscono nel tentare di esserlo? Questa è la domanda che si pone un interessante articolo di Creative Review sul tema, “Why Distinctiveness is everything for brands”. Nel nostro piccolo, come risposta potremmo iniziare con il decidere che da ora in avanti saremo ancora più attenti ai dettagli, anche quelli davvero piccoli, e procederemo curando la comunicazione del nostro brand con costanza e coerenza assolute. Anche quando dovremo decidere come fare le nuove spillette che vogliamo produrre per il brand.